Arrivò così il giorno del commiato

Arrivò così il giorno del commiato

Autore: Emanuele Landi

via francigenaPassavo quei giorni appieno e in serenità, anche se non mi abbandonava mai quel sentore di morte che a tratti avvertivo. Lo percepivo maggiormente durante le mie passeggiate mattutine, quando scendevo dal viottolo dietro il cimitero per addentrarmi nel castagneto. Nei mille argomenti affrontati nelle nostre conversazioni non potevano mancare Marina, Michela, Roberto e gli altri. Marco mi disse tra l’altro, che quando il suo pensiero andava a persone precise si sentiva trasportare in un luogo lontano, avvolto nella nebbia, le voci, mi disse, gli giungevano come in sordina. Non sentiva nostalgia, ma tanto amore e poi chiudendo gli occhi augurava a tutti ogni bene.
Non volle che raccontassi di loro, voleva ricordarli come in un sogno che, giorno dopo giorno, si fa più lontano, ormai li aveva tutti raccomandati al cielo, capii in quel momento che c’eravamo detti tutto e che la mia permanenza era oramai allo scadere. Era giunto il momento di tornare in città e al mio lavoro.
Negli ultimi giorni del mio soggiorno Marco aveva gradualmente diminuito la sua eloquenza e lentamente stava tornando all’atteggiamento taciturno e distaccato dei primi giorni fino all’usuale introspezione mistica.
Arrivò così il giorno del commiato, dopo la messa delle sette con tutti i bagagli pronti, attesi che si togliesse i paramenti e dopo il solito caffè ci salutammo, per un attimo tornò espansivo e a tratti anche sorridente, mi confidò che al più presto mi avrebbe recapitato quel suo dossier, poi con uno slancio ci abbracciammo e fu allora che avvertii tutta la sua magrezza. I nostri sguardi s’incontrarono, il suo mi parve velato e non solo di tristezza. D’impeto alzai il viso ed entrai in una prospettiva obliqua tra la Pieve, la Rocca e il cimitero sembrava una sequenza cinematografica: nuvole basse e scure che avanzavano minacciose dalla montagna oltre il camposanto. Tornai a Marco, ma questa volta il saluto fu breve, voltai le spalle e percorsi il viottolo sassoso che fiancheggiava le case, giunsi alla strada asfaltata, aprii il baule della macchina riposi i bagagli, misi in moto e andai verso la città senza che un pensiero violasse la mia mente.

Ora davanti a questa lapide, mi chiedo se potevo evitarlo. Una morte la sua, voluta e cercata, forse quei due mesi passati assieme, solo un anno prima, anziché fugare i suoi fantasmi avevano riaperto le sue numerose ferite esistenziali, forse, anche io avevo contribuito a questo. Una domanda sospesa, la mia, ma penso che così doveva andare, mentre guardo la busta gialla che contiene quel dossier promessomi.
Leggo e rileggo il referto medico dove si dice che la morte è giunta a causa di una progressiva denutrizione. In poche parole morto di fame. Forse la sua incapacità a vivere era dipesa dal fatto che oramai era già in comunicazione con il cielo, troppo assorto nell’eternità per preoccuparsi del cibo.
E’ stato trovato un baule con venti milioni, i suoi appannaggi e le elemosine, non aveva toccato nulla, o quasi. Ha lasciato scritto che tutto vada ai poveri.
Ricordo che in quei giorni, aveva detto, che era necessario, uscire dalla sudditanza dei bisogni indotti.
Non riesco a versare una lacrima, non avverto tristezza, rigiro tra le mani, il suo dossier e mi chiedo se finirò col pubblicarlo. Non voglio pensarci, una volta che l’avrò letto, sarà ciò che dovrà essere.
Mentre esco dal cancello arrugginito del cimitero ho la netta sensazione che una voce mi dica arrivederci.

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