Don Marco

Don Marco

ovvero di personaggi, luoghi, ricordi e riferimenti voluti

Autore: Emanuele Landi

veduta di Sambuca Pistoiese inizii '900Non so da quanto tempo sono fermo davanti alla lapide, il silenzio è assoluto e nulla disturba la mia fissità.
Conosco questo posto fin dall’infanzia, salivo quassù bambino, a cavalcioni di mio padre. Per chi viveva a valle la Rocca e la Pieve erano l’abituale punto di riferimento della comunità; il monte, il luogo antico, l’origine, la meta di mille passeggiate, la quiete, lassù, tra la chiesa e il cimitero e, a dominare, la rocca che fu dimora di Selvaggia Vergiolesi, poetessa stilnovista e amante di Cino da Pistoia. Quel cimitero per noi ragazzi non aveva nulla di macabro, era un luogo affascinante, silenzioso ancorché familiare, vi erano sepolti nonni e zii da tante generazioni, giocarvi non ci sembrava affatto irriverente né tanto meno c’incuteva paura, noi ragazzini montanari, a differenza dei cittadini, cominciavamo presto ad avere dimestichezza con la natura e con la morte che n’è parte.
Una leggera brezza scende ora dal monte e i ricordi vanno ad un anno addietro. In un settembre come questo, già foriero dell’inverno, ero quassù con l’amico che ora riposa sotto questa lapide nel cimitero della mia infanzia.
Marco, dopo gli anni selvaggi e irriverenti di quel magico decennio che furono gli anni settanta, entrò in seminario. Una volta, ordinato sacerdote, chiese e ottenne, dopo alcuni coadiuvi, di diventare parroco lassù sul monte nell’antica Pieve che domina l’Appennino tra l’Emilia e la Toscana.
Durante i suoi studi teologici non c’eravamo visti granché, non riuscii nemmeno ad andare alla celebrazione della sua prima messa. Andai a trovarlo poche volte a dire il vero e spesso di sfuggita. Fu solo l’anno passato che rimasi quassù, quasi due interi mesi, lo feci istintivamente ritagliando quel tempo al mio lavoro d’editore, forse avevo bisogno di un po’ di tranquillità, quale miglior posto, pensando che potesse essere l’occasione che Marco ed io ci raccontassimo tutte le cose che in quegli anni non eravamo riusciti a dirci.

«Quanto, resti?»

«Non meno di due mesi, ho vari manoscritti da visionare, mi pare il posto ideale, poi potremmo riprendere quelle nostre chiacchierate interminabili, come un tempo».

Fu un periodo durante il quale da una parte scoprii lati sconosciuti del carattere del mio amico e dall’altra ebbi la conferma dei dubbi, che molti, io compreso, nutrivamo sulle ragioni di quella vocazione improvvisa. Pareva, a volte che Marco avesse chiuso ogni percezione dell’esterno per vivere in una sorta di interiorità mistica di cui i riti e le consuetudini del suo ufficio erano l’unico aspetto palese all’esterno e che tutto il resto del suo vivere fosse una continua introspezione popolata da fantasmi e rimorsi, sì perché non vedevo in lui la serenità che ci si aspetta da chi è mosso da un’autentica vocazione spirituale.
Solo nell’esercizio del suo ufficio quotidiano, mi pareva d’intravedere una qualche serenità, persino nelle discussioni dalle più elementari alle più elevate non riscontravo una completa sincerità né tantomeno tranquillità. Notavo continue remore, a volte fatica e dolore spesso trasparivano dalla sua voce, in special modo nell’affrontare certi argomenti, quelli riguardanti gli anni della militanza e dei rapporti interni al nostro gruppo.

«Senti Marco, scusa se parlo con sincerità, ma avverto delle incongruenze in questa tua vita ritirata. Sei meticoloso e attento, hai un ottimo modo di fare con i tuoi parrocchiani, quando però ci ritroviamo a parlare pari un fantasma che si aggira tra la Pieve e il cimitero, ho persino l’impressione che sia la mia presenza a provocarti quel dolore che traspare dal tuo essere.
Ti ho osservato molte volte mentre sei intento nella lettura del breviario passeggiando avanti e indietro, se per un attimo sollevi lo sguardo il tuo volto è segnato da una sofferenza infinita.
Permettimi d’essere sincero fino in fondo. Tutti hanno avuto la netta percezione che il tuo farti prete e il tuo venire quassù sia stato più una fuga che un’autentica vocazione, hai di fatto chiuso ogni rapporto ed ora vivi in quest’estraniamento, permettimi di dirlo, non mi pare né tranquillo né tantomeno spirituale. Apriti perbacco!»

Mi ascoltò, ancora una volta come distratto. Ricordo la sua sagoma nera, eretta di fronte al cancello del cimitero, lo vedevo ergersi tra i cipressi e il cielo, chiuso da basse nuvole, pareva un’immagine irreale, quasi un quadro. Avvertii per un attimo un profondo presagio di morte. Lentamente mi venne incontro e si sedette di fronte a me, appoggiò il breviario a terra e portandosi il pugno chiuso alla bocca batté più volte delicatamente le nocche sulle labbra serrate, poi inspirò profondamente e parlò:

«Aspettavo queste tue parole, forse ho molte cose da dire, ho bisogno di parlare e di andare oltre la preghiera che, sempre più spesso, non mi dà un completo conforto; probabilmente ho bisogno di più tempo per immergermi completamente in essa ed essere sufficiente a me stesso e in completa simbiosi con il soprannaturale. Sai Giacomo durante l’inverno quassù, sembra davvero di stare solo con le cose del cielo però,. finita la preghiera, la messa o il breviario, mi sento improvvisamente terribilmente solo».

«Allora è per questo hai accettato quasi con entusiasmo il mio soggiorno quassù, dove ti accompagnavo quando ragazzi passavano quei giorni di vacanza nella casa dei miei? Devi esserti innamorato di questo posto sin da allora, forse ancor più di me che ci sono nato si può dire. Ci conosciamo da una vita, abbiamo, lo sai, condiviso tutto, il gioco, i sogni, le ragazze, la passione politica ed anche un poco la delusione per un mondo che era cambiato, ma non come noi sognavamo.
Ti prego Marco fa che questi giorni ci riportino, per quanto possibile, a quei tempi, fammi capire la ragione che ti ha spinto quassù, ma soprattutto cosa ti impedisce di gustare la pace avvolgente di questo luogo».

Alzai un poco lo sguardo, seguii il correre veloce delle nuvole che a tratti coprivano un sole pallido, si era alzata una leggera brezza e piegava dolcemente le cime dei cipressi, nessun rumore, nessun suono, solo il leggero fruscio del vento tra le foglie. Nel mio spaziare incrociai lo sguardo di Marco e avvertii che un’infinità di parole erano pronte ad uscire, c’era solo bisogno di un la, di un segnale, istintivamente alzai gli avambracci all’altezza del viso e gettai le mani verso l’esterno alzando le sopracciglia tirando poi le labbra chiuse a formare un sorriso, come una maschera d’Arlecchino.
Fu quel mio agire che aprì a confidenze e animate discussioni che si protrassero per quasi tutto il tempo del mio soggiorno.
Mi raccontò che, nel lungo periodo in cui non c’eravamo visti e all’indomani del ritorno alla realtà seguito all’ubriacatura dei giorni della politica, si era sentito svuotato, avendo anche netta la sensazione d’essere stato una pedina inconsapevole di un gioco di potere, che ora, ultimato, produceva i suoi frutti prendendo possesso della vita di tutti., mi disse, del bisogno di ripercorrere a ritroso gli avvenimenti che ci avevano visto protagonisti, vagliare i fatti e ricordare parole che magari avevamo ascoltato solo di sfuggita a causa della totale immersione nel gioco entusiasmante delle illusioni, tra grandi progetti, sesso liberato e sballo.

Continua…