Stiamo lavorando bene

Stiamo lavorando bene

o della ragion di Stato

Autore: Emanuele Landi

pinnacoliStiamo lavorando bene, disse tra sé, con lo sguardo fisso, sulle ultime notizie trasmesse da Partior, l’attentato nella piccola isola del grande mare aveva fatto circa duecento vittime ed erano ancora stime provvisorie, immediatamente tutte le fonti giornalistiche e i commentatori politici avevano attribuito l’azione al gruppo dei Tribali.
L’ufficio del colonnello era in quei giorni il cuore nevralgico della Compagnia: era lui l’ideatore di quella campagna di azioni che avevano come obiettivo il portare l’opinione pubblica del pianeta ad appoggiare senza condizioni la guerra imminente. Era chiaro che quelle azioni davano già i primi risultati.
«E’ permesso colonnello?»
Nella stanza entrò il capitano Orat, il superiore si girò e ripeté ad alta voce, tradendo emozione e compiacimento, quello che aveva esclamato solo pochi istanti prima, ma stavolta; rivolto al capitano: «Stiamo lavorando bene, vero capitano?»
Il nuovo arrivato, da qualche tempo collaboratore del colonnello e non direttamente coinvolto in quella specifica operazione, non rispose alla domanda del superiore, stette con lo sguardo fisso al video che continuava ad aggiornare sull’attentato, non riusciva a distogliere lo sguardo e fra sé cercava disperatamente una frase o qualsiasi cosa da dire tanto era l’imbarazzo che provava, in fin dei conti era entrato dal superiore per una informazione di poca importanza e d’improvviso si era trovato coinvolto in una operazione che non condivideva affatto, ma doveva dire qualcosa, trattenne un attimo il respiro e poi disse: «Non so molto dell’operazione, signore, era venuto per il dossier Rok…»
«Capitano»
lo interruppe il colonnello «So bene che lei non condivide questa nuova strategia, non a caso non ho richiesto la sua partecipazione e, se non sapessi che lei è un autentico patriota, avrei già preso seri provvedimenti nei suoi confronti. Ammettiamo anche divergenze, che diamine, entro certi limiti è ovvio. In ogni modo la sua venuta mi da l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con lei e vedrà, capitano, alla fine lei chiederà. anche stavolta, di entrare in squadra con me».
Il colonnello fece accomodare il suo sottoposto ed iniziò ad enunciargli la strategia che intendeva portare avanti, disse che non c’era altro da fare e che era necessario portare la democrazia dell’Armonia ovunque e non potevano certo alcuni fanatici impedire questo progetto, e al contempo tutte le remore dei cittadini, su un’eventuale guerra, dovevano essere assolutamente fugate, non poteva passare che un’accozzaglia di retrogradi fideisti potessero impunemente distruggere e uccidere come avevano fatto con i pinnacoli di Dharut; poi, dopo una breve pausa, appoggiò il gomito sullo scrittoio e guardando fisso il capitano disse: «Certo è che questi selvaggi hanno a volte bisogno di un piccolo aiuto».
Orat obiettò: «Vuol farmi credere colonnello che la Compagnia è coinvolta nella strage di Dharut? Se ciò fosse vero saremmo responsabili della morte di migliaia di nostri concittadini, e il dirmelo mi legherebbe a lei e al silenzio. La prego mi dica che non è così».
Il colonnello mosse leggermente le labbra accentuando quel suo sguardo satanico, riunì le palme e vi appoggiò il mento, sollevò lo sguardo e fissando il capitano disse: «Lei è un mio uomo ed è legato a me da sempre, per quanto concerne il silenzio vi è legato dal momento che ha iniziato a lavorare presso di noi. Certo che siamo coinvolti. Crede davvero che pochi reduci dell’antica religione, da sempre ostacolo al progresso, possano anche solo pensare ad una cosa così grossa. D’altra parte è venuto il tempo che il nostro modello di sviluppo e di vita sia adottato in tutto il pianeta. Siamo o non siamo i creatori dell’unica e vera democrazia. Sappiamo entrambi che per affermarla sono state necessarie due guerre temporali, ed anche allora la Compagnia è intervenuta con azioni mirate atte creare consenso. Non sono forse i caduti venerati come eroi?! Il loro sacrificio, mio caro Orat è servito. Ora siamo di fronte ad una necessità assolutamente irrimandabile: l’elargizione della democrazia a tutti; e solo noi ne siamo i custodi. Una volta fatto ci sarà pace e armonia. Non più voci dissonati, non più retaggi di vecchie religioni oltranziste. Un solo popolo, una sola religione, una sola lingua e un solo modello di vita. Siamo dei missionari e come loro, se saremo costretti, dovremo essere pronti a sacrificare la nostra gente, che è poca cosa di fronte alla nostra missione. Non saranno dimenticati. Lo sono forse stati i morti dei Pinnacoli? E guardi, sono convinto che di fronte ad un tale obiettivo, qualora lo avessimo chiesto, nessuno avrebbe rifiutato il sacrificio».
Orat rimase impietrito, nella sua mente passarono in un lampo tutte le azioni che aveva condotto negli anni passati. Non erano certo cose edificanti, ma mai, almeno a sua conoscenza, sia era proceduto all’eliminazione fisica preventiva. Probabilmente non lo ricordava o, forse, stava cambiando. Per la prima volta si sentì estraneo a quel luogo ma non doveva farlo vedere, sapeva come il colonnello eliminava chi a suo avviso non era più idoneo. Radunò le forze e con voce ferma e volutamente distaccata chiese: «Ma allora lo Scerdich, il gran latitante, è solo un’invenzione?»
Il colonnello, dopo un attimo di pausa, spiegò all’interlocutore che lo Scerdich altro non era che un uomo della Compagnia. Era necessario per rendere credibile la messa in scena avere un capro espiatorio, un cattivo di turno. Quegli imbecilli dei Tribali lo credono un loro paladino contro la tirannia dell’Armonia. L’operazione sotto questo punto di vista stava riuscendo perfettamente. Proseguì il colonnello e aggiunse che le operazioni previste erano ancora parecchie. D’ora in poi non poteva rinunciare all’apporto dell’eroe di Varut. A quelle parole il capitano trattenne per un attimo il respiro poi, rilasciandolo lentissimamente, ricordò quella sua “impresa” quando piombò con il suo commando nel villaggio tribale di Varut e massacrò nel sonno oltre seicentomila persone, tra cui donne e bambini, la cui unica colpa era l’opporsi al passaggio di una strada che doveva portare i turisti al complesso vacanziero di Maranathur. Eseguì quell’ordine convinto. allora ne andava del prestigio della sua unità scelta. Ora, a distanza di dieci anni, non si sentiva affatto orgoglioso di azioni di quel tipo.
Deglutì e disse: «Mi perdoni colonnello, ma anche i Rutnici, che abbiamo combattuto nell’ultima guerra temporale, agivano in questo modo, spesso incuranti delle vittime lasciate sul terreno. In cosa saremmo diversi noi?»
«Mi meraviglio di lei capitano, che non ne comprende la profonda differenza. Loro intendevano schiavizzare l’intero pianeta, noi portare un nuovo modello di sviluppo. Loro identificavano precisi nemici e li sterminavano, noi pur avendone siamo pronti a sacrificare anche noi stessi Ciò che conta è l’obiettivo e la nostra causa è giusta. Noi siamo la culla della democrazia e non possiamo accettare che miliardi di esseri ne siano privi; come maestri severi, a volte, dobbiamo ricorrere al bastone. Lo facciamo per loro; potremmo anche lasciarli nella superstizione e nell’ignoranza, ma allora che democratici saremmo».

Passarono minuti interminabili. Il corpo di Orat si fece rigido come il marmo. La sua mente deflagrò. Pensieri, azioni, immagini e sangue, morti ovunque, luci e flash si alternavano in uno sfavillio continuo. Riconosceva a tratti il viso del colonnello intento a parlare con quella sua voce sgraziata e metallica. Era come se fiumi di lacrime e sudore uscissero dal suo corpo. Provò orrore, vergogna e dolore, un dolore immenso. Caldo e freddo in successioni rapidissime espandevano il suo corpo ed ogni lembo di pelle pulsava al ritmo di un cuore impazzito. Poi avvertì un fortissimo calore all’interno del cuore e quel calore cominciò a salire su su fino al capo e lì una fiammata improvvisa; fu come se l’intero cervello esplodesse, vide un guizzo di luce rossa e gialla. Poi più nulla.
Era avvolto da una luce intensa, ci vollero alcuni attimi perché potesse abituarsi a quello sfolgorio, poi, il diradarsi di una leggera nebbia mostrò lontano, come visto attraverso una lente molto spessa, il suo corpo disteso su un letto collegato attraverso centinaia di tubicini a varie macchine. Non provò nessuna emozione. Portò lo sguardo verso se stesso e vide tutt’attorno al suo corpo una intensissima luce. Si concentro sul quell’antico corpo immobile e vide che alcuni medici staccavano tutti quei tubi. Immediatamente le macchine produssero diagrammi piatti. Non avvertì dolore, si sentì liberato ed ebbe la chiara sensazione che, di lì a poco, sarebbe stato una persona diversa, rientrando nel gioco emendato e consapevole.

«Sei padre per la quarta volta, Xelisat» gridò correndo la levatrice.
Ci sarebbe stata una festa quella sera nel villaggio tribale di Belioty.