Rimane impresso nella memoria

Rimane impresso nella memoria

a cura di Brunella

"manifesto del sale"Rimane impresso, questo spettacolo di TeatrocondivisO. Rimane impresso nella memoria, perdonatemi il gioco di parole. A distanza un paio di settimane dalla rappresentazione ancora mi dà spunti di riflessione importanti. A partire da titolo, “Io non ho perso la memoria”. Perché davvero la memoria è la principale ancora di salvataggio contro lo svilimento della natura umana. Conoscere, ripetersi e trasmettere ciò che è stato, sapere che è successo veramente e capirne le conseguenze: questo è e sarà sempre necessario per evitare che il peggio si ripeta o si ripresenti in forme anche più gravi.

Spettacoli come questo, con messaggi forti e responsabili, fanno davvero effetto in un’epoca in cui il disinteresse la fa da padrone. Inutile parlare per eufemismi: noi, “spettatori” prima ancora che persone, siamo i destinatari di una longeva e pericolosissima operazione, più o meno sotterranea, di intontimento delle coscienze, che purtroppo riesce benissimo nel suo intento di distrarci, portando un’illusoria beatitudine ai tanti e veri vantaggi a pochi. Così, quando ci dovremmo svegliare, alzarci, decidere, impegnarci, pensare, scegliere, farci sentire, reclamare ciò che ci spetta e che invece ci stanno rubando, cosa facciamo? Restiamo seduti, intorpiditi, facendo finta che sia tutto un reality, dove in fondo sappiamo che le cose accadono ma accadono per finta. Diciamo che tanto son tutti uguali e che non vale la pena spendersi, tanto non cambia niente. E invece intanto le cose cambiano, ma in peggio, e per giunta sotto i nostri occhi. Che vedono ma non guardano, e soprattutto non registrano: non ricordano.

“Io non ho perso la memoria”. Sembra un richiamo a chi invece l’ha persa: io ce l’ho, la memoria delle cose; perché, invece, voi, là fuori, l’avete persa? Quell’ “io”sono gli autori-attori dello spettacolo, i musicisti, gli organizzatori, gli spettatori presenti in sala (tra cui anche, bellissima presenza, alcuni studenti delle scuole medie della zona accompagnati dai loro insegnanti) che, a ridosso del Giorno della Memoria, hanno voluto esserci e ricordare insieme. Gli altri invece sono tanti, tantissimi, purtroppo troppi. Sono quei tanti che scelgono, senza esserne costretti dalle proprie condizioni di vita, di restare ignoranti, quasi che l’ignoranza fosse un valore. Sono quei tanti che non si interessano delle cose, tanto se ne occupa qualcun altro. Sono quei tanti che preferiscono non ricordare, perché vedere un comico disimpegnato o due belle gambe femminili in tv è molto più comodo e rilassante.

Chi, invece, era presente al Centro Montanari il 28 gennaio ha vissuto un’esperienza davvero coinvolgente. Assistere a questo “viaggio teatrale e letterario attraverso la memoria”, come descritto dagli autori del progetto, Saverio Mazzoni ed Emanuele Landi, ha significato essere portati nella quotidianità degli anni delle dittature, delle persecuzioni, della guerra e dei primissimi tempi del dopoguerra, spesso attraverso le parole degli stessi protagonisti. Lo spettacolo è costruito su una fitta rete di brani: racconti, poesie, lettere, testimonianze, e alterna momenti delicati e commoventi ad altri decisamente forti. Il tutto è accompagnato da immagini altamente evocative proiettate sulla parete di fondo-palco e da pezzi musicali, di sottofondo o anche con proprio spazio scenico, scelti con accuratezza e magistralmente eseguiti dal chitarrista Davide Brillante e dal sassofonista Matteo Raggi.

La scelta e l’ordine dei brani recitati riflette una sorta di cronologia, dall’ascesa al potere delle dittature fascista e nazista fino al faticoso ritorno alla normalità del dopoguerra. A fianco di note e toccanti poesie di Brecht, Ungaretti o Montale restano particolarmente impresse le testimonianze di gente comune travolta dagli eventi, ancor più per le parole semplici che usano nel descrivere l’immane tragedia che è avvenuta. Ad esempio, si rimane colpiti, avendo già in mente com’è proseguita la storia, dalla rassegnata e sofferta constatazione di un padre tedesco che, a guerra terminata, ci racconta le difficoltà che ebbe nello spiegare ai propri bambini il perché delle brutture che vedevano e vivevano, e ciò perché a Hitler e alla sua pazzia “a cuor leggero avevamo affidato l’anima”. Segnano nel profondo i durissimi momenti in cui i due attori inscenano le testimonianze degli internati sopravvissuti ai lager nazisti: quando, ad esempio, un prigioniero ci racconta che si era costretti a lavorare senza sosta sotto il maltempo, affamati, stanchi, infreddoliti, giorno dopo giorno, senza mai sapere cosa sarebbe potuto accadere dopo, e l’unica cosa cui si pensava era: “potremmo buttarci sul reticolato elettrico, o sotto i treni in manovra, e allora finirebbe la pioggia”; ascoltando questi racconti dai lager, recitati da Landi e Mazzoni in maniera profondamente umana, si riesce a immaginare anche la quotidianità incredula degli internati, la loro difficoltà a credere possibile una tale bestialità e disumanizzazione. Oppure, in un momento di grottesco teatro brechtiano, ecco provenire dal palco, declamati alla maniera del duce dal terrazzino di Palazzo Venezia, i 10 articoli del Manifesto della Razza, pubblicato durante il ventennio fascista: la delirante teorizzazione della “pura razza italiana”. Estremamente forte è il contrappunto che risulta dall’evocazione dell’orrenda strage di Marzabotto, qui rappresentata attraverso le parole degli esecutori (che, chiamati a parlare ai processi, con spaventosa lucidità e freddezza cercano di convincere ai giudici dell’ “inevitabilità” delle loro ignobili azioni assassine) e dei testimoni, spesso gli unici sopravvissuti di intere famiglie decimate dalla vendetta nazista. Altrettanto toccante è il momento dedicato alle ultime lettere dal carcere dei condannati a morte o deportati della Resistenza: impersonando i protagonisti seduti a scrivere ai tavolini delle loro celle, gli attori rievocano i sentimenti contrastanti di chi sta per morire, la rassegnazione, il profondo affetto per i familiari, ma anche la rabbia per il proprio destino e per la pazzia del mondo, e la speranza che chi resta in vita possa continuare a lottare al posto loro per cambiare il corso delle cose.

Le immagini che scorrono sullo sfondo di tutte queste parole sono a volte poetiche, a volte dure; sempre comunque molto adatte ad accompagnare i testi, a seconda del taglio drammatico o grottesco delle diverse scene. Sono proiettati spesso anche i nomi dei testimoni che stanno “parlando” dal palco o alcune intere loro frasi, per sottolineare l’importanza di certi passaggi, su cui vale la pena soffermarsi un po’ più a lungo a riflettere. Le musiche, protagoniste non secondarie dell’esperienza teatrale, tutte improntate a sonorità tra gli anni ‘20 e i ’40, sono il più delle volte in efficace contrasto con la durezza delle parole narrate: dall’apertura dello spettacolo con l’ammaliante e celeberrima Lili Marlene in versione originale, a tutte le partiture eseguite dal vivo in versione jazz dai due musicisti, melodie storiche (Bella ciao), suadenti (il tema da La vita è bella) o addirittura leggere (Voglio vivere così) che contribuiscono a esaltare o “straniare” i momenti più suggestivi della rappresentazione.

La parte finale dello spettacolo si rivolge al dopoguerra, al post-tragedia; ci fa immaginare quanto sia stato difficile ritornare a una quotidianità il più possibile normale, che sforzo sia stato essere ancora vivi, fuori e dentro, tra tanti morti, e anche quanto sia sembrato improbabile essere di nuovo, almeno un po’, felici. Chi ci è riuscito, a volte lo ha fatto a scapito della propria stessa memoria, scegliendo di rimuovere per poter sopravvivere in maniera dignitosa. Ma cancellare la memoria non paga, anzi; per quanto in un primo momento di urgenza possa umanamente sembrare l’unica soluzione per andare avanti, alla lunga distanza è un rischio troppo grande da correre. Una provocatoria scena recitata a mo’ di commedia dell’arte, infatti, ci pone di fronte a una domanda apparentemente semplice ma in realtà immensa: cos’è la storia? A cui noi, nella nostra riflessione stimolata dallo spettacolo, dobbiamo aggiungerne altre: a cosa serve studiare e capire la storia? A cosa serve ricordare? Dal palco non arrivano risposte esplicite, piuttosto innumerevoli spunti di pensiero che portano ad un unico, fondamentale, irrinunciabile messaggio: mai smettere di ricordare e trasmettere, mai perdere la memoria di ciò che accade. Solo così è possibile vivere come persone e non come bestie, crescere e migliorarsi, evitare le brutalità che solo chi ricorda sa che possono succedere di nuovo, proprio perché sono già successe. Le parole di Primo Levi ancora risuonano nella testa mentre si riaccendono le luci di sala, e restano impresse lì come incise sui sassi: “meditate che questo è stato”.